Yervant Odian
a cura di Andrea Scala e con una postfazione di B. L. Zekiyan
Edizioni Lavoro, Roma 2004, pp. 78
La grande stagione della cultura armena moderna inizia ai primi del Settecento con l’opera dei Padri mechitaristi di Venezia e si conclude tragicamente con il genocidio del 1915. In questo periodo, dopo secoli di inserimento nel contesto islamico e di declino culturale, gli armeni si riavvicinarono sostanzialmente alla cultura europea e cominciarono a recepirne in profondità idee e forme artistiche. Yervant Odian è stato uno degli esponenti di maggior rilievo di questa cultura armena moderna. Nato nel 1869 a Costantinopoli, capitale di un impero ottomano declinante, ma al tempo stesso grande e fascinosa città cosmopolita, Odian apparteneva una delle famiglie più in vista della numerosa, ricca e colta comunità armena locale. Come molti altri armeni, anch’egli sperò che la rivoluzione dei Giovani Turchi nel 1908 avrebbe determinato un futuro migliore. L’illusione, però, fu di breve durata: nel 1915 il governo dei Giovani Turchi decise di risolvere alla radice la “questione armena”, ordinando la deportazione e l’annientamento degli armeni, a partire dagli intellettuali e dai personaggi di maggior rilievo politico. Questo destino coinvolse anche Odian che venne esiliato, ma riuscì – un caso abbastanza raro – a sopravvivere. La tragedia di cui era stato testimone e vittima lo aveva però profondamente minato. Morì al Cairo, nel 1926. La produzione di Odian è ricca e varia: romanzi, racconti, commedie, memorie, diari, articoli e scritti vari sparsi in quasi tutti i giornali dell’epoca, di alcuni dei quali egli fu pure il fondatore. Lo scenario principale della sua opera è la vita di Costantinopoli, luogo di incontro tra le borghesie e le élite intellettuali armene, turche, ebraiche e greche; una città multiforme che la penna di Odian presenta in maniera singolarmente vivace, oscillando tra realismo e ironia. Ma le pagine migliori uscite dalla ricca e incontenibile fantasia di questo scrittore sono senza dubbio quelle satiriche, ricche di freschezza espressiva, ampiezza di vedute e indipendenza di pensiero. Tra queste spicca la trilogia sul “compagno Phançhuni”, senz’altro il personaggio satirico più riuscito tra quelli creati dalla fantasia di Odian: Una missione a Dzablvar (1911), Il compagno Phançhuni nel Vaspurakan (1914), Il compagno Phançhuni in esilio (1923).
“Il compagno Phançhuni” è il prototipo dell’agitatore politico di professione, del rivoluzionario parolaio e irresponsabile del quale soprattutto il XX secolo è stato purtroppo assai ricco. In questo senso il “pançhunismo” può essere posto accanto ad altri grandi “caratteri” letterari divenuti incarnazione di “tipi” umani universali: il donchisciottismo, certo, ma anche il tartufismo e l’oblomovismo. Un tipo umano fastidioso e ridicolo, la cui cialtroneria parolaia è però tutt’altro che inoffensiva quando si pone al servizio di politiche rivoluzionarie o comunque radicali.
Il villaggio armeno di Dzablvar, situato nella regione anatolica dell’impero ottomano, la più povera ed “asiatica”, è il primo scenario della grottesca attività rivoluzionaria del nostro eroe. Il testo che ce ne narra le gesta tragicomiche è costituito da una sorta di introduzione biografica (Note biografiche sul compagno Phançhuni), da un’introduzione fittizia nella quale Odian utilizza il tradizionale artificio di presentarsi come il curatore di un epistolario casualmente giunto in suo possesso e da undici lettere dell’ineffabile Phançhuni, che si concludono invariabilmente con una richiesta di denaro ai compagni di partito. Benché il suo tentativo di esportare il verbo socialista abbia un esito tragico, la narrazione di Odian ha un tono lieve, essenzialmente satirico. Del resto questo racconto è stato scritto nel 1911, quando le speranze suscitate dalla rivoluzione dei Giovani Turchi non si erano ancora spente ed era immaginabile la furia genocida che di lì a poco avrebbe cancellato il popolo armeno dalla sua millenaria madrepatria. Andrea Scala, curatore e traduttore di questo testo, ha reso l’originale armeno con uno stile quanto mai gradevole: c’è da sperare che voglia proporci anche gli altri due episodi di questa “epopea” satirica, così divertente nonostante la tragedia che costituisce il suo retroterra storico.
Aldo Ferrari