Marlène Laruelle è una giovane studiosa francese che ha già pubblicato molto e bene sul tema dell’identità culturale della Russia. A partire dal suo primo volume, L’idéologie eurasiste russe ou comment penser l’empire (1999), in cui l’eurasismo degli anni 20 e 30 è studiato con competenza e raffinatezza metodologica, ma sulla base di un assunto a mio giudizio discutibile, vale a dire che “Son orientation vers l’Asie en tant que telle est unique dans la pensée russe” (p. 33). Ho dedicato buona parte del mio studio La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa (Milano 2003) a individuare le radici intellettuali del movimento eurasista e non posso quindi essere d’accordo con questa affermazione, che costituisce peraltro anche il punto di partenza del nuovo studio di Marlène Laruelle. Nell’introduzione, infatti, l’autrice spiega che “Le but originel de ce travail était de rechercher la généalogie de l’ideologie eurasiste. Il a pourtant fallu se rendre à l’évidence: avant l’éxperience eurasiste des années 1920, quasiment aucun courant intellectuel en Russie ne s’ouvre sur le monde-turco mongole” (p. 20). Sulla base di questa convinzione – sostanzialmente corretta, anche se con la notevole eccezione di Konstantin Leont’ev – la Laruelle ha interpretato la poliedrica “asiofilia” russa pre-rivoluzionaria non come preistoria del movimento eurasista, ma in una chiave differente. Questa chiave è individuata nel mito ariano, “…mode scientifique de légitimation et d’explication de la domination européenne sur le reste du monde” (p. 15). Lo studio inizia con la descrizione della diffusione del mito ariano, di origine prevalentemente francese e tedesca, all’interno della cultura russa, buona parte della quale – soprattutto di orientamento conservatore, da Chomjakov in poi – è quindi riletta in questa luce un po’ sinistra. Nel primo capitolo del suo libro, “Jeux de miroir transeuropéens autour du mythe aryen”, l’autrice sottolinea peraltro come all’interno della cultura russa l’arianismo sia sostanzialmente privo di connotati razziali e razzisti, ma si basi su presupposti storico-culturali funzionali a fornire una risposta soddisfacente alla vexata quaestio del rapporto contrastato della Russia con l’Europa. Non a caso l’arianismo russo, vale a dire la rivendicazione dell’appartenenza alla grande famiglia dei popoli indoeuropei, sembra nascere in opposizione alla tendenza, assai forte in certi ambienti intellettuali e politici francesi, tedeschi e polacchi di leggere la Russia sub specie asiatica. In particolare è rigettata aspramente la tesi della “turanicità” del popolo russo, avanzata da F.H. Duchinski, un polacco di Kiev emigrato in Francia, che distingueva tra slavi “buoni”, ariani ed europei, e slavi “cattivi”, mescolati ai turco-mongoli, vale a dire i russi (p. 31). Il secondo capitolo del libro, “Les théories autochtonistes. La Scythie, berceau originel des Slaves”, investiga le numerose rivendicazioni della natura ariana del popolo russo presenti in autori noti e meno noti (M.P. Pogodin, A.S. Chomjakov, V.V, Grigor’ev., I.E. Zabelin ed altri), che discutono appassionatamente questioni come la slavità misconosciuta del mondo greco antico, l’origine variaga dello stato russo, l’appartenenza di sciti, baltici, unni, khazari al mondo slavo e così via. Molto opportunamente l’autrice confronta queste ardite ricostruzioni ideologiche con quelle parallele e concorrenti di polacchi e ucraini. Il terzo capitolo, “Le référent indien: de l’usage identitaire des arguments linguistiques, culturels et religieux”, porta invece l’indagine sul tema del parallelo culturale tra India e Russia diffusosi all’interno del più vasto mito ariano russo. Vengono pertanto prese in considerazione la nascita degli studi sanscriti e indiani nelle università e nell’accademia russa e la diffusione – alla fine del XIX secolo e con il ruolo decisivo di Elena Blavackaja – dello spiritualismo teosofico, fortemente influenzato dalla cultura indiana. La figura principale di questo accostamento ideale tra la Russia e l’India, il principe E.E. Uchtomskij, è tuttavia trattato nel quarto ed ultimo capitolo del volume, “L’avancée impériale russe en Asie: le retour tant attendu aux sources aryennes”. E non a caso, in quanto questa figura ancora relativamente poco nota ebbe un ruolo importante nella politica estera “orientale” della Russia a cavallo tra Ottocento e Novecento. M. Laruelle sostiene infatti che il mito ariano fu un elemento fondamentale della politica espansionista dell’impero russo, condiviso da ideologi progressisti (M. I. Venjukov e S.N. Južakov) e conservatori (lo stesso Uchtomskij, V.P. Vasil’ev ed altri). Per tutti costoro la penetrazione in Asia centrale, ma anche l’aspirazione frustrata alla conquista del Tibet, significava in primo luogo il ritorno verso i luoghi delle origini indoeuropee. Secondo M. Laruelle, alla fine del XIX secolo era presente anche in Russia una sorta di ossessione ariana, con riflessi politici oltre che culturali. A suo giudizio, infine, “…il existe donc une asiophilie pré-révolutionnaire, mais celle-ci reste aryenne: les eurasistes, dans leur touranisme, non a eu aucun précurseur direct” (p. 188). Ora, a parte il fatto che per quanto rilevante il tema turanico non esaurisce certo un fenomeno intellettuale complesso come l’eurasismo, si ha l’impressione il mito ariano sia una chiave di lettura utile ed interessante, ma non sufficiente a interpretare tutte le manifestazioni dell’orientamento asiatico della cultura russa pre-rivoluzionaria. Al di là di questo rilievo, il libro di M. Laruelle contribuisce in maniera notevole alla conoscenza di temi e figure rimaste troppo a lungo ignorate o misconosciute ed apre al tempo stesso prospettive di ricerca in larga misura ancora da esplorare in maniera corretta e produttiva, in particolare quelle dei rapporti culturali – oltre che politici, sociali ed economici – tra la Russia e le sue periferie imperiali, soprattutto asiatiche.
Aldo Ferrari