Il massacro degli armeni – Un genocidio controverso

Guenther Lewy
Einaudi, Torino 2006, pp. 394

La quarta di copertina definisce questo libro “…il primo, vero lavoro di storia su una delle pagine più controverse del Novecento”. Ciò significa che i tanti studi sul genocidio armeno apparsi prima di quello di Lewy non sono “veri lavori di storia”? Oppure che l’estensore di queste parole non li conosce? Tra l’altro, per limitarci al panorama italiano, sono ancora freschi di stampa i volumi di Taner Akçam (Nazionalismo turco e genocidio armeno, tr. it. Guerini e Associati, Milano 2005) e Marcello Flores (Il genocidio degli armeni, Il Mulino, Bologna 2006). Superata l’irritazione per questa sconcertante promozione editoriale, occorre dire che ci si trova di fronte all’opera di uno studioso di buon livello, che peraltro – per sua stessa ammissione – non legge né il turco né l’armeno e si è dedicato di recente alla questione del genocidio. L’obbiettivo della sua ricerca, come dichiara l’autore nella Prefazione, è di “…verificare l’attendibilità dell’ampia documentazione disponibile… {senza} un mulino a cui tirare acqua”. Tale meritoria ricerca di equilibrio è fondata peraltro su un equivoco fondamentale, che compromette tutto l’impianto del libro di Lewy: vale a dire che la storiografia sul genocidio sia costituita da una interpretazione armena ed una turca, l’una contro l’altra armata, rispetto alle quali è dunque necessario assumere un atteggiamento critico. Le cose non stanno così. A confrontarsi sono in realtà da un lato la linea ufficiale del governo di Ankara (fatta propria anche da un pugno di storici stranieri, prevalentemente statunitensi), dall’altro la stragrande maggioranza degli studiosi internazionali (ma, da qualche anno, anche turchi residenti all’estero). Diverse osservazioni critiche di Lewy sono più che legittime. Per esempio quelle sul ruolo importante che ebbero nel peggioramento dei rapporti armeno-turchi le attività politiche dei partiti armeni, fondati a partire dal 1887 e responsabili di azioni dimostrative tanto velleitarie quanto invise alle autorità ottomane. Oppure quelle sulla dubbia attendibilità di molti dei documenti prodotti a sostegno della premeditazione del genocidio. Lewy, peraltro, riconosce apertamente l’inconsistenza della tesi ufficiale turca secondo la quale piuttosto che di genocidio si dovrebbe parlare di una “guerra civile” armeno-turca. Né le sofferenze della popolazione armena sono in alcun modo taciute. In questo senso non si può affermare che il suo studio rientri nel negazionismo storico in vario modo sostenuto dal governo turco. La debolezza principale del libro di Lewy consiste a mio giudizio in una comprensione insufficiente del genocidio armeno nel suo complesso, dovuta in primo luogo ad un’eccessiva concentrazione sulla questione della premeditazione. Infatti, pur ammettendo che a livello documentario non sia possibile dimostrare con assoluta certezza che il governo dei Giovani Turchi abbia progettato l’annientamento della popolazione armena, appare impossibile negare che proprio questo è stato l’esito finale della sua politica. Un altro aspetto discutibile dello studio di Lewy è l’aver preso in considerazione quasi esclusivamente gli anni 1915-16. In effetti l’annientamento degli armeni dell’Impero ottomano ebbe inizio allora, ma proseguì sino al 1923, determinando la definitiva eliminazione della trimillenaria presenza di questa popolazione nei territori anatolici. Inoltre, i successivi governi turchi hanno proibito il ritorno ai sopravvissuti, iniziando al tempo stesso un’operazione di distruzione dei monumenti armeni in Anatolia e di falsificazione della memoria storica che dura in sostanza sino ad oggi. Di fronte a questa realtà storica e politica la ricerca di equilibrio di Lewy si trasforma a volte in equilibrismo. Infine, destano serie perplessità le pagine conclusive in cui lo studioso invita gli armeni “…a rinunciare all’uso del concetto di genocidio nella sua accezione giuridico-legale” in cambio “…, da parte turca, di un sincero rincrescimento per le terribili sofferenze del popolo armeno”. Una soluzione del genere sarebbe certo molto gradita al governo di Ankara, che si vedrebbe così sollevato dalle pesanti conseguenze derivanti dall’eventuale riconoscimento del genocidio, ma non soddisferebbe né gli armeni né tutti coloro che riconoscono nella loro tragedia un significato storico, morale e politico non così agevolmente superabile.

Aldo Ferrari