Francine Hirsch
Ithaca (NY), Cornell University Press, 2005, pp. 367.
Il libro, uno studio di storia sociale della conoscenza e del suo rapporto con la storia politica, è frutto di una delle ricerche più innovative sulle politiche nazionali sovietiche degli anni venti e trenta. Studiando le relazioni tra etnografi e dirigenti bolscevichi, Hirsch mostra il contributo del sapere etnografico all’elaborazione e all’applicazione delle politiche sovietiche, in particolare in due separate funzioni: nell’elaborazione della categoria sovietica di «nazionalità» e nell’identificazione di quali e quanti fossero i gruppi nazionali presenti sul suolo sovietico. Pur mettendo in evidenza le differenze, prima fra tutte il ruolo dell’ideologia, Hirsch pone il sapere etnografico sovietico nel contesto della scienza «imperiale» europea, evidenziandone le connessioni con le «tecnologie culturali di dominio» messe in atto dagli stati per catalogare e dominare le popolazioni, in particolare quelle colonizzate. Seguendo Benedict Anderson, Hirsch analizza in tre capitoli centrali il «censimento» (ne furono organizzati tre tra 1926 e 1939), la «mappa» (la mappatura etnica e il tracciamento delle frontiere delle unità amministrative nazionali sovietiche negli anni venti) e il «museo» (etnografico di Leningrado) come altrettanti modi per completare la “conquista culturale” delle popolazioni ex-zariste. Hirsch identifica poi la «doppia assimilazione» cui miravano le politiche nazionali sovietiche: con la prima, le popolazioni che seguivano identificazioni claniche o religiose avrebbero dovuto essere assimilarsi alle categorie identitarie nazionali; a un secondo livello, tutti i gruppi nazionali avrebbero dovuto sovietizzarsi, identificandosi con lo stato di cui facevano parte. Il presupposto era la convinzione, da parte dei dirigenti bolscevichi, di poter capire, controllare e accelerare il processo storico e l’evoluzione identitaria per mezzo dell’azione dello stato, con l’effetto combinato di sviluppo economico e politiche culturali. La dimostrazione del nesso tra sapere etnografico e decisione politica è però la parte più debole dello studio. La sopravvalutazione dell’impatto politico dall’attività scientifica porta Hirsch a ignorare altre fonti del pensiero bolscevico sulla questione nazionale. Terry Martin ha mostrato che le idee bolsceviche legate al concetto di nazione non si formarono primariamente grazie all’attività degli etnografi o degli statistici, ma con l’interazione con i movimenti nazionalisti dell’inizio del XX secolo in Europa centro-orientale e nell’Impero zarista, e poi nella lotta politica e militare durante la guerra civile. Su un altro piano, il fatto che Hirsch non sia una specialista di nessuna delle regioni sovietiche le preclude un’analisi dell’interazione del sapere etnografico con i processi sul terreno, in particolare l’evoluzione delle identità di gruppo. Ad esempio, l’uso delle categorie nazionali nei testi delle petizioni inviate dai villaggi durante la «delimitazione nazionale» dell’Asia Centrale alla metà degli anni venti porta Hirsch a sostenere che la popolazione avesse adottato molto rapidamente il “linguaggio nazionale” legittimato dallo stato, con un crescente “valore di realtà” di tali categorie. Anche lasciando da parte l’odierna persistenza di forme identitarie sub-nazionali, si deve prendere in considerazione l’alto tasso di manipolazione da parte delle élite politiche locali delle petizioni sovietiche dell’epoca, le quali in alcuni casi furono direttamente elaborate dai dirigenti locali, che le distribuirono nei villaggi per essere ricopiate e firmate. Nonostante ciò, la ricerca di Hirsch rimane una delle migliori all’interno della nuova storiografia sull’URSS, e ha anche mostrato la ricchezza documentaria degli archivi delle istituzioni scientifiche sovietiche, fin qui trascurati dagli storici.
Niccolò Pianciola