Paolo Sartori
Campanotto Editore, Pasian di Prato (UD), 2003, 157 pp
Al lettore che non sa cosa significhi la parola jadid consiglio di iniziare questo libro dalle ultime pagine, dove si trova un’antologia poetica. Troverà versi come questo: “Alzata la testa, inseguite ben desti la scienza europea, non state sempre a pregare, non dà certo frutto”. In altre poesie compaiono parole magiche: aeroplano, cannone, grammofono, ginnasio, scienza. Sono poesie scritte nel 1914 e 1915 da Tawalla, poeta jadid. Tawalla nacque a Tashkent una quindicina d’anni dopo che la città fu conquistata dall’esercito russo, visse nel Turkestan diventato regione di espansione dell’Impero zarista, e vi morì quando ormai il paese era diventato parte dell’Unione sovietica. I suoi versi descrivono l’atteggiamento di intellettuali che combattevano per la riforma dell’insegnamento e che poi, nel 1917, si impegnarono direttamente nella politica. Gli jadid, fautori del “nuovo metodo”, erano in polemica con gli orientamenti conservatori che prevalevano nei maktab e nelle madrasa, volevano rinnovare la cultura locale senza rinunciare al suo fondamento islamico, ma confrontandosi con il sapere, la tecnica e la scienza che erano portati dai Russi e avevano origini in Europa. Erano musulmani e volevano contruine una nazione in grado di trattare alla pari con la Russia.
Paolo Sartori tratta di un mondo culturale complesso, basta pensare a città in cui l’amministrazione usava la lingua persiana, gli scrittori si servivano sia del persiano che del türki, nelle scuole si insegnava soprattutto l’arabo, i colonizzatori scrivevano e parlavano in russo. Sartori spiega che all’origine dello jadidismo non vi fu semplicemente una fascinazione verso il mondo russo. L’esigenza di un cambiamento ebbe come primi protagonisti dei tatari, gente musulmana che veniva da fuori e conosceva la Russia. Erano intellettuali in conflitto con il mondo conservatore musulmano e con il loro baluardo politico, che era rappresentato dall’emirato di Bukhara. Non erano tuttavia succubi alleati dei Russi, anzi presto diventarono pericolosi per la Russia facendosi alfieri della causa nazionale musulmana. I bolscevichi per qualche anno tentarono di servirsi di esponenti jadid facendo loro promesse di un futuro non coloniale, poi li tradirono e si disfecero di loro destinandoli al GULag. Lo jadidismo non fu un fenomeno che riguardò soltanto il Turkestan. Come Sartori ci spiega, un movimento di rinnovamento coinvolgeva allora un’ampia parte del mondo musulmano: dalla Crimea a Istanbul a Kazan. La stessa battaglia per ottenere democrazia e Costituzione aveva dato prova di sé nella rivoluzione iraniana del 1906, animò il primo movimento dei Giovani Turchi, arrivò in Afghanistan. Concezioni analoghe a quelle degli jadid, sottolinea Mario Nordio nella sua bella nota introduttiva, vi erano negli stessi anni in Marocco di fronte alla penetrazione culturale francese e si ritroveranno più avanti alle radici della Fratellanza Musulmana in Egitto. La riflessione sul riformismo islamico, che il libro propone, può servire da antidoto alla vulgata propagandistica di oggi che vede il mondo musulmano senza differenze come una minaccia.
Marco Buttino